( in epoca di filosofia sociale “savianesca”).
Lo stato attuale della economics ( dire del suo “stato dell’arte” sarebbe come conciliare l’estetica con il regno del brutto ) è a dir poco comatoso. E la speranza di venire fuori dall’immane crisi economica attuale, che lo “spirito dei tempi” vorrebbe consegnare alla dimensione della “scienza triste”, è purtroppo intrasferibile. In barba alla riuscita autocelebrazione che nei secoli ha portato i primi “consiglieri del principe” a farsi omologare sul proscenio degli idola theatri, grazie a un ben articolato bluff, quali “scienziati” prestati allo studio dei meandri del “regno della necessità” e alle possibili cure per attenuarne i rigori.
D’altronde, come pretendere che esperti di organismi monocellulari possano in qualche modo discettare (e ancor meno intervenire) circa organismi complessi? Infatti, come ho altrove dimostrato, pur senza averne né coscienza né sospetto e sordi a pur tracciati itinerari di redenzione, i presunti guru della “scienza”in questione operano su un canovaccio teorico oggettivamente riferito a un sistema economico monomerce, e poco conta che vi applichino (troppo spesso tra la ilarità dei relativi specialisti, segnatamente i matematici) tecniche “raffinate” importate dallo strumentario di altre discipline dopo aver scimmiottato nel loro specifico ambito di competenza lo statuto epistemologico della fisica (“riduzionismo fisicalista”), ciò equivalendo a un mal posto sovradimensionamento di “ferri del mestiere”operanti in corpore vili, che è un po’ come aggredire una ameba con armi nucleari!
E ciò non riguarda solo il così detto mainstream, perché anche i “panchinari”, ovvero i sedicenti “eterodossi” si muovono in un ambito diegetico embedded, cioè tutto interno a una condiviso corpus teorico da cui è vano ogni tentativo di ricavarne pensiero realmente alternativo. Emblematico e decisivo in tal senso è il caso di quanti hanno tentato di deflettere gli esiti armonici della dottrina ricardiana dei costi/vantaggi comparati e del conseguente diktat del free trade ( libero scambio) per spiegare l’asimmetria dello sviluppo/sottosviluppo su scala mondiale cercando tra le pieghe di quella condivisa cornice teorica le tracce di un ammissibile e strutturale “scambio ineguale” sul mercato internazionale. Per non dire di quanti hanno addirittura in tal chiave tentato di dare vita a una ben fondata (?) teoria del protezionismo. E anche di tutto questo ho avuto modo di dare in altro contesto stringente prova ragionata oltre che paradigma realmente radicalmente sostitutivo.
Non abbiamo potuto che alludere qui ai temi più su accennati. Nel mentre intendiamo fornire di seguito alcuni cenni sulle alcune rilevanti “stazioni” di quella oggettiva, dai colpevoli desertificata, via crucis che segnala le conseguenze disastrose sul piano diagnostico e terapeutico di una tanto rachitica e deforme “scienza economica” nei riguardi della infondata individuazione delle cause e delle conseguenti maldestre cure in relazione all’attuale immane crisi economica.
Avvertiamo da subito che ci ripeteremo ( repetita iuvant, si diceva una volta, ma ora ne abbiamo seri dubbi), sintetizzando conclusioni di argomentazioni altrove sviluppate, ancora nell’ennesimo tentativo di essere infine ascoltati dinanzi alla lampante certezza del fallimento di venire a capo della peste economica che affligge l’Occidente – e che ben presto non potrà che contaminare anche quelle aree che sembrano sin qui essersi salvate dal contagio – se si continua a fare appello a ciò che gli economisti(ci) hanno fatto coventrizzando gli ultimi residui di nobiltà promessa della antica Economia Politica, ormai da tempo relegata all’acribia di nostalgici archeologi delle “terre promesse” dell’autentico Sapere, tacciati di cedere al pagano “culto dei morti” in epoca di “pensiero debole”. Epoca che ha incubato i suoi vuoti “sacerdoti”, autentici campioni dell’apologia di “secondo grado” nei confronti dell’ordre capitalistique per tali officianti da mondare, riformandolo, da “eccessi” e “cattivi comportamenti”. Dove quella di “primo grado” è riservata al più grande pubblico dai “pugilatori a pagamento” ( quelli del tipo dell’evergreen <<The Economist >>, che già dai tempi di Marx con tale appellativo bollava i collaboratori della rivista britannica, divenuta invece una stella polare per i moderni “sinistri”) per i quali ognuno riceverebbe in misura di ciò che dà in una società equa ed efficiente. Quale quella sorretta da l’economia di mercato, che non abbisognerebbe dunque di emendarsi affatto da colpe liberandosi prima o poi da comportamenti devianti in quanto non compatibili con la razionalità economica ( rational choice) affidata al puro gioco del laissez-faire e della deregulation. Dove ogni deviazione dagli “ottimi” per ciascuno sarebbe infatti da attribuirsi a intromissioni normativo-“statuali” nei meccanismi dei sinallagma interindividuali. Risultando il “sociale” un universale astratto, privo di empirica evidenza e quindi inesistente. Non potendolo incontrare per strada, come ebbe a esemplificare il concetto l’inneffabile “lady di ferro” Margherita Tatcher.
Iniziamo dal banale e superficiale giudizio universalmente condiviso che sentenzia sulla natura “finanziaria” della crisi in actu. Ebbene, non v’è crisi ciclica della intera storia del capitalismo che non si mostri immediatamente come sete o domanda di moneta che non riesce a essere soddisfatta dal lato della relativa offerta, risultando preclusi e interrotti i flussi di finanziamento che caratterizzano la situazione di fisiologico svolgersi del processo di accumulazione del capitale. Ma si tratta del più evidente e solo sintomo della crisi ( “crisi di liquidità”). Ma i sintomi, come sa anche un aspirante infermiere del Bangladesh sono ben lungi dal costituire le loro stesse cause. Tant’è che ove tali sintomi siano dolorosi essi richiedono solo cure sintomatiche e non già il ricorso a terapie elettive e ad eventuali misure di profilassi.
Ebbene, da un tale abbaglio esiziale seguono cure che nel nostro caso sono peggiori della malattia. Ancora schiavi, ciechi e sordi, della più antica delle sciocchezze tramandata dai primi vagiti della “scienza triste”, risalente a Locke ed erroneamente attribuita a Hume, la famosa ( in realtà, famigerata) “teoria quantitativa della moneta” (TQM), gli economisti(ci) non cessano di attribuire a un difetto dell’offerta di moneta l’’imperterrito riproporsi ciclico delle crisi di sovrapproduzione assoluta che marcano sin dal suo nascere la storia del capitalismo. Ciò nonostante che i moderni Mandarini esperti in “scienza triste”:
a) siano stati avvertiti dalle pur intelligenti osservazioni di quello che essi stessi hanno elevato al soglio di pontifex maximus delle “armonie economiche” ( per la impresentabilità di Bastiat cui pure si deve tale bon mot), Jean-Baptiste Say . Say al quale si attribuisce, senza il suo oggettivo permesso anzi tradendone l’eredità letterale, l’eponima e altrimenti detta “legge degli sbocchi” , nel mondo anglosassone nota anche come “legge dei mercati” – il che la dice lunga sul salvifico messaggio contenuto nella relativa mitopoietica dei “mercati” – che presiederebbe ai presunti meccanismi che renderebbero “impossibili” le suddette crisi di sovrapproduzione assoluta, visto che la predetta “legge” vorrebbe che immancabbilmente “la offerta crea la sua stessa domanda”;
b) ignorino che J.S.Mill, , un paio di secoletti fa con chiarezza ebbe a individuare il busillis sotteso al suo “paradosso”, per il quale della importanza della moneta ci si accorge solo quando scoppiano le crisi di sovrapproduzione ( assoluta). Paradosso il cui irrisolto arcano è tale rimasto “ufficialmente” per non aver i posteri neanche sospettatane la implicita sfida intellettuale;
c) non facciano i conti con una semplice osservazione: come mai la massima vantata virtù della logica di una economia di mercato retto dalla libera concorrenza ( la sua presunta “superiore efficienza” rispetto a una “economia di comando” ) viene affidato alle alterne e fisiologiche variazioni in più o in meno dei prezzi – a causa del necessariamente sfasato scambio tra quantità domandate e offerte sino al raggiungimento degli equilibri ottimizzanti, cioè come mai il meccanismo efficiente dello scambio di moneta contro merci si basa sulla semiologia (aumento/diminuzione) dei prezzi – , per poi finire per far coincidere tale meccanismo della variazione dei prezzi, idoneo a guidare lo spostamento delle quantità, con la massima sventura della dinamica capitalistica: ritenendo che tale segnaletica si trasformi in caso di crisi – anche qui con una inspiegata transustanziazione – in un evento massimamente patologico? Evento tanto più stupefacente quanto più relativo all’intero mondo delle merci che configurano una deflazione che accompagna una sovrapproduzione assoluta, ovvero una offerta globale sovrabbondante rispetto alla corrispondente domanda globale.
Le conseguenze di tanta “disattenzione” – in realtà si tratta di un autentico “buco nero” nella “cosmologia” degli economisti(ci) – sono a dir poco venefiche e si riverberano appieno nella incapacità a venir fuori nella attuale tempesta economica mondiale. Vediamo di brevemente darne conto anche a chi sia dotato di semplice buon senso e non sia iniziato alla ( ormai semintrovabile) “alta teoria”.
Orbene, in eroica sintesi, si tratterebbe di questo: se come vuole la TQM la offerta ( quantità ) di moneta è una variabile esogena o indipendente ( la cui variabilità è stabilita da chi moneta “batte” o “crea”) le cui oscillazioni in più o in meno determinano il livello generale dei prezzi con ciò spiegandosi, nell’ordine, l’inflazione e la deflazione ( alla quale ultima si accompagnano le crisi), nell’ambito del ciclo economico, come mai in generale l’offerta di moneta risulta sufficiente a soddisfare la relativa domanda, venendo a mancare tale circostanza soltanto in quel punto speciale del ciclo che è l’innescarsi della crisi?
Aderire al corollario della TQM che vede sino a oggi trionfare la tesi che le crisi sono determinate da un difetto o insufficienza di offerta di moneta e che pertanto la cura per guarirne consisterebbe “conseguentemente” nell’aumentare tale offerta ( cheap e/o easy money) significa ratificare l’assurdo sul piano logico-metodologico, spacciandolo per oro colato della scienza più avanzata. Quell’assurdo cui stiamo perniciosamente assistendo da quattro anni senza alcun segno di miglioramento, anzi posponendo il momento della verità che avrà costi crescenti a misura di queste inutili trasfusioni di “sangue” ( liquidità) a un sistema economico “pletorico” in quanto già gonfio all’inverosimile di liquidità.
Ma tornando al ragionamento che andiamo svolgendo. Se i collassi dell’economia dipendessero da insufficiente offerta di moneta avremmo che un fenomeno casuale si atteggia in modo (benignamente ) regolare in generale ( fuori dalla crisi), per rivelare la sua natura random o casuale solo in un caso speciale e per di più con regolarità ( ancorché irregolare temporalmente) ciclica in occasione del punto di crisi. Dunque una doppia manifestazione di un mutamento genetico di una variabile o grandezza da un punto di vista logico-metodologico: definita come variabile esogena o autonoma o casuale la quantità di moneta offerta, nella semplicità della “equazione di Hume” con cui si rappresenta la TQM, questa quantità finirebbe per atteggiarsi nella sua concreta manifestazione con una duplice regolarità: in generale, contraddicendo la casualità del fenomeno eguaglierebbe in equilibrio la sua domanda; inoltre la quantità di moneta offerta, pur quando si conciliasse con il suo Dna casuale autonomo o esogeno con conseguente squilibrio del sistema economico, ciò farebbe non meno inauditamente con cadenza ciclica (ancorché “irregolarmente regolare”, come vuole Schumpeter con efficacia icastica).
Pur volendo astrarre da tale ultima inusuale ( ma non certo tale nella dimensione dei fenomeni sociali) “regolarità irregolare “ ) avremmo dunque l’inconcedibile licenza scientifica di ammettere che un fenomeno stocasticamente inconcepibile diventi “legge”per gli economisti(ci): una variabile esogena opererebbe dunque in generale come una grandezza endogena ( fuori da ogni gergalità, una grandezza endogena ad un sistema in equilibrio è da questo determinata senza residui in difetto o in eccesso), cioè nel suo inconciliabile opposto, “ricordandosi “ della sua coerenza logica solo in caso di crisi, cioè in una occasione speciale, quello dello squilibrio critico !
Come può vedersi vista la fedeltà inveterata alla TQM, come si mostra negli allarmi ( “crisi di liquidità”) e nelle cure approntate sia in Europa e negli USA ( ma non vi sarebbe differente riferimento dottrinale anche in altre parti del mondo) con ricorrenti e massicce iniezioni di liquidità da parte delle Banche Centrali ( siano esse dotate o meno della facoltà di stampare moneta a fini anticiclici), siamo in mano – nonostante la eclatante reiterata inefficacia di tali misure infondatamente “salvifiche” – a esperti o “tecnici”che non meritano maggiore fiducia e prestigio di “apprendisti stregoni”. Così come appare inconfutabile che non v’è alle viste la possibilità di una qualche resipiscenza o di un opportuno passo indietro a favore di chi avrebbe qualcosa da dire una volta chiamato a dare una mano a questa dilagante catastrofe. Che differenza rispetto ai tempi in cui Keynes si scervellava ( inutilmente) dinanzi alle macerie della crisi del ’29 ! Basta leggersi le ultime pagine della sua General Theory ove si dà conto dell’attesa vibrante del mondo intero riguardo a una qualche proposta ovunque e da chiunque formulata per uscire dallo ““scandalo della miseria nel mezzo dell’abbondanza” che dilagava in quella circostanza e che ora sembra ripetersi mutatis mutandis. Tant’è che la pseudo diagnosi e pseudo cura del cantabrigese furono ascoltate pur senza avvedersi de “ le conseguenze di Mr.Keynes” nel lungo periodo, il monstrum della stag-flation, inebrindosi dei suoi effetti meramente sintomatici ancorché protratti per almeno tre decenni non senza segnali crescenti del fuoco stagflazionistico che covava sotto le ceneri: l’impennarsi progressivo nel tempo della “curva di Phillips”. Esito finale e segnali che non a caso sono da attribuirsi al fatto che lo stesso Lord Maynard, pur ritenendo di fare piazza pulita della TQM vi rimase infine irrimediabilmente intrappolato. Anch’egli “inavvertito” delle considerazioni di cui ai punti a), b), c) e relative conseguenze più su illustrati.
Oggi solo i conduttori di ripetitivi e inedificanti talk shaw televisivi sono alla disperata ricerca di voci nuove sulla crisi globale, a sentir loro dire, ma frequentando poco o nulla le librerie e ancor meno le biblioteche ed embedded sul piano ideologico al “mondo così com’è”, che solo assicura loro lauti contratti, tali cercatori di scoop finiscono per scambiarsi a turno i soliti noti ospiti in una logica di spudorato marketing, nell’inveterato vezzo di promozione reciproca di inutili libelli spacciati come irrinunciabili perle di saggezza per gli spettatori- lettori-acquirenti.
Non possiamo né vogliamo approfondire sul piano scientifico il discorso sin qui abbozzato. Chi è interessato non solo sul piano di un radicalmente “altro” quadro teorico, anche comprensivo di coerenti corollari di politica economica, si metta di buzzo buono e studi il mio lungo itinerario di ricerca opportunamente documentato pubblicisticamente. Diremo qui per semplice pur parziale completezza che esiste una minoranza di “studiosi” che a fino a tempi recenti si è schierata contro la TQM, senza però venire a capo della sottostante grande sfida intellettuale, di dar conto delle crisi di sovrapproduzione ( assoluta) ciclica in presenza di una quantità endogena di moneta offerta. Rimanendo però muti dinanzi al rimanente arcano di una grandezza endogena che si mostra , ancorché solo in caso di crisi, con cangiante natura, improvvisamente e ciclicamente, qua variabile esogena. Dunque senza andare un millimetro oltre quanto segnalato da J.S.Mill. E senza rendersi conto che a monte di un tale arcano ciò che va spiegato è l’altro irrisolto – e neanche più avvertito come tale – problema e paradosso: come sia possibile che si produca troppo di tutto ( sovrapproduzione assoluta) in caso di crisi e come ciò richieda necessariamente la possibilità di rappresentare analiticamente un mondo con almeno due merci, e come ciò sia impossibile una volta che si sia imposto e adottato universalmente ( per di più connotando ciò come un progresso scientifico) il ricorso a una rappresentazione analitica del mondo economico per mezzo dei “Grandi Aggregati” o Macroeconomia: che non può che aggregare ciò che non si riesce a distinguere, addirittura nascondendolo ( in ciò, tra l’altro consiste la fuorviante e fasulla “rivoluzione” paradigmatica attribuita “unanimemente” a Keynes).
Ma con ciò vogliamo per caso assolvere la intera dimensione bancario-finaziaria del suo autentico comportamento criminale che ha mantenuto il bluff della sottostante crisi reale sino agli inauditi livelli di furto di cui si è macchiata nel rimandare il redde rationem della attuale crisi? Neanche per idea, non implicando affatto l’assoluzione da siffatti crimini la fondata assunzione ( con quanto vi è a monte implicato, sul terreno scientifico) della natura endogena della offerta di moneta. Come escludere che la offerta di moneta si adegui senza squilibri alla sua domanda, ancorché tale domanda da lato dell’economia reale riguardi investimenti “sbagliati” sul piano degli equilibri della dinamica dell’economia globale? A titolo esemplificativo, si rifletta alla possibilità di trasferimenti di investimenti nello spazio, ottimi microeconomicamente sul piano della singola impresa ( vedi quanto sotteso alle delocalizzazioni e conseguente deindustrializzazione dell’Occidente una volta “opulento”) con conseguente gigantesca redistribuzione del reddito e della ricchezza sul piano mondiale con il corollario di ricadute esiziali sul piano dei precedenti assetti ed equilibri all’interno delle singole entità “nazionali”. E non è poi, ancora, domanda di moneta quella espressa, in questa sciagurata nuova divisione internazionale del lavoro indotta dalla Globalizzazione, quella richiesta dai mercati della speculazione internazionale assistita dal mondo bancario e finanziario in cui l’Occidente ex industrializzato ha inteso specializzarsi, del tutto improvvidamente definendola per puro esorcismo, e non senza l’aiuto dell’AKKADEMIA, “industria finanziaria”? Senza, anche qui, sospettare che trattasi di una dimensione per la sua stragrande parte “capitalisticamente improduttiva” mancando la economics – a mostra e riprova del suo palmare fallimento – di una teoria che possa discriminare tra settori (più o meno) “produttivi/improduttivi”? Come venirne a capo, d’altronde, in un mondo monomerce, a fortiori alla luce di quanto già accennato in proposito? Qui ha giocato, come catalizzatore e amplificatore di autentici imbrogli e truffe, la vincente filosofia della “privatizzazione del mondo”, a partire dalle Banche Centrali ( massimamente e incoerentemente quella europea nel tentativo di essere più “realista del re” amerikano nella sbornia liberal-liberista e nella genuflessione dinanzi al dogma monetarista di badare solo all’inflazione e non anche allo sviluppo e all’occupazione). Banche Centrali che nell’alimentare la spirale speculativa in realtà hanno alimentato se stesse in un mero gioco delle parti. Come non registrare un’ assoluta novità nell’eziologia delle crisi capitalistiche che vede, con sparutissime eccezioni, esenti da fallimenti a catena e connessi suicidi di banchieri, appunto banche e istituti finanziari qua banche di investimento – peraltro rovinosamente e senza memoria storica non più rigidamente distinte in termini operativi – nell’attuale grande crisi globale?
Persino sullo stesso terreno dei “padri nobili” del pensiero liberal-liberista si è ignorato quanto – pur in una ottica analiticamente irrimediabilmente insufficiente e minata nei suoi presupposti statico-riproduttivi anziché dinamici – von Hayek e Wicksell, per esempio, non avevano mancato di evidenziare circa le conseguenze di una divaricazione tra tasso d’interesse monetario e reale . Con conseguente superfetazione del credito/debito – del pur solo settore privato – con l“artificiale” espansione dell’attività “finanziaria” non giustificata dalla corrispondente redditività del settore reale. E ciò senza minimamente considerare la a noi contemporanea straripante dimensione di “Borsa” con la sua autonomia relativa dal settore reale, dove si continua impunemente a chiamare le corrispondenti attività di puro gioco d’azzardo “investimenti” ( “Casino Economics”) e i corrispondenti redditi in forma di “profitti” – persino da parte di osannati presunti eterodossi come Minsky ( cosa peraltro per pochi cultori sedicenti “alternativi” quando non anche “marxisti”!) – trattati con estremo amaro inganno persino come poste attive nella contabilità del reddito nazionale.
Come tutti i bluff, questo scandaloso stato di cose ( profitti reali e certi nel mondo ex sottosviluppato e festival del rischio crescente e reiterato a costi finanziari ridicoli quando non negativi e corrispondenti livelli di indebitamento anche pubblico – nel tentativo senza speranza di tener fermi i livelli di welfare in costanza di una deindustrializzazione galoppante – nelle Borse dell’Occidente) ha retto fin quando il cerino acceso è rimasto nelle mani di chi ha finito per scottarsi, e/o fin quando i pochi vincenti in questo jeu de massacre in cui si sostanzia la stessa speculazione ( i così detti “mercati”) hanno trovato conveniente puntare sui suoi esiti devastanti: gli anelli più deboli in chiave di squilibri dei conti pubblici su basi statuali. Qui aprendosi la possibilità di comprare a “prezzi di saldo” o svendita intere nazioni poste dinanzi all’alternativa, per grandissima parte falsa, di impiccarsi da sole per risanarsi nella logica, meramente suicida, ragioneristica imposta dal Waschigton Consensus divenuto articolo più o meno obbligatorio di fede insieme ai miracoli protestati del laissez-faire e del free trade ( “rigore” per un’ altrimenti impossibile crescita, cioè risorgere dopo la morte!) ; ovvero di autorelegarsi ai margini del mondo implodendo su stesse con il proprio default. Ultima chance coincidente con la “ispirata” ricetta dei frustrati economisti(ci) “alternativi” che – incapaci di competere sul piano della “scienza normale” e atteggiandosi da “eterodossi” – hanno scoperto le “virtù” dei debiti da mandare in protesto (sic!), del tutto omologando la propria ” superiorità” diagnostico-terapeutica alla chirurgia primitiva, che ignorando origine e cura delle infezioni non aveva che praticare la rozza logica della sega: tagliar via gli arti ammalati; insomma risolvendosi nella scelta di avere storpi e inidonei alla autosufficienza in caso di sopravvivenza incerta, in luogo di cadaveri immediati.
Andare alla radice dell’attuale tsunami che ancora ci affligge e che non sembra dare speranze di redenzione visti i nostri supremi reggitori politici e i loro codazzi di economisti(ci)-consiglieri, quando non delegati dai primi al ruolo di taumaturghi in loro vece, significa andare alle radici del fallimento della Globalizzazione (e delle sue conseguenze di distribuzione regressiva della ricchezza creata alle più diverse scale sociali e geografiche ) e dei suoi fondamenti scientifici che sono poi i fondamenti stessi della “scienza” tutta degli economisti(ci). E operare di conseguenza per venirne fuori, non già praticando un protezionismo in malafede (come sempre si è fatto tentando di conciliarlo con la mai dubitata validità della dottrina ricardiana a base del libero scambio) bensì ricorrendo a un “protezionismo illuminato” fondato su scambi progettati in chiave contrattuale e di reale reciproca convenienza ed equità economico-sociale tra partner internazionali. Ricordando che anche prima di Galileo si navigava senza sapere della inaffidabilità delle relative carte nautiche e la caduca “professionalità” di ammiragli e marinai dell’era tolemaica, che pur durò millenni.
A proposito di libero scambio anche la infondata fede nella inattaccabilità del relativo retroterra del teorema di Ricardo dei “costi/vantaggi comparati” tra partner internazionali risulta blasfema e inconseguente: liberando quel teorema dei vincoli analitici della intrasferibilità del capitale, com’è nel contesto della Globalizzazione, questo emigra nel Paese che mostra i minori costi assoluti nella produzione delle merci e non già secondo i segnali dei costi/vantaggi relativi. Con il che cade la fondamentale tesi di quel teorema posto a baluardo e giustificazione della Globalizzazione: la reciproca convenienza agli scambi in assenza di barriere protezionistiche. Per non dire dei presunti vantaggi dei salariati, che persino la formulazione contraddittoria – che falsifica ab imis il teorema ricardiano senza per questo che il mondo lo retroceda a puro esorcismo dogmatico- ammette non sussistere: esplicitamente affermando Ricardo che ove si diano ovunque salari di mera sussistenza biologica questi salari non vedranno aumentare di uno iota il loro potere di acquisto; e ove, implicitamente, si diano livelli superiori a quelli di tale mera sussistenza in presenza di salari a quest’ultimo livello saranno essi ineluttabilmente a rappresentare tendenzialmente il salario di equilibrio sul piano del mercato globale. Non è d’altronde ciò verificato sul piano fattuale in quelle nazioni che come l’Italia, et similia, hanno mancato di opporre al quadro ricardiano della assenza di monopoli ( assenza apparente in Ricardo, che implicitamente e contraddittoriamente la ammette pur negandola in ipotesi ) l’aumento di produttività del lavoro attraverso una costante attività di investimenti innovativi ( con conseguente status monopolistico) vedendo costantemente diminuire il potere di acquisto dei propri lavoratori da quando si è ceduto alla mitopoietica del free trade? E anche qui come valutare lo spessore dottrinale e la studiosità e competenza degli economisti(ci) di ogni dove?
Prendersela e fermarsi alla superficie dei fenomeni significa allontanarsi dalla possibilità di comprenderli e dominarli. Equivocarli e quindi intervenirvi non può che essere controproducente e autolesionistico, sino al masochismo. Così denunciare – fermandosi lì – la natura “finanziaria” dell’attuale crisi significa fatalmente cadere nell’inganno di credere o far credere di poter moralizzare il capitalismo con un maggior controllo sulla relativa sfera : ciò costituendo autentico e pericoloso fariseismo utopico. Come il pretendere di poter abbassare la rapacità delle aquile o abbassare la umidità degli oceani! Di qui la vasta, rumorosa, e “popolare” gang degli “eccessivisti”, autentici laudatores temporis acti , appena un po’ più raffinati dei propagandisti del “mondo così com’è”, spacciato come il “migliore dei mondi possibili”. Campione estremo di un tale inganno la “savianetà”, in quanto esclusivamente dedicata a esecrare le “Gomorre” invece che le logiche storico-economiche che le generano fatalmente. Studiare l’Economia Politica significa lasciare ad altri il compito di studiare diritto penale e criminologia, senza negarne evidentemente l’importanza pratica. Dimensioni queste ultime da lasciare ad anonimi , perché solo così più efficientemente conseguenti, operatori ed esecutori piuttosto che ai castigamatti travestiti da letterati.
A un critico tanto benevolmente imbarazzante verso i miei lavori scientifici, dove di gran parte di quanto qui detto si affrontano i veri snodi teorico-speculativi, – tanto benevolo da apparire immotivatamente un cultore di letteratura encomiastica – lì dove molto marginalmente si indicava come unica pecca l’aver da parte mia poco o nulla affrontato i temi della finanziarizzazione del capitalismo contemporaneo, dopo una più articolata argomentazione ebbi a ribattere che mi interessavo e rispondevo solo in punto di “Critica” dell’Economia Politica. Non nutrendo ambizioni di teorico della “pubblica sicurezza”, tentando semmai implicitamente di elaborare materiale scientifico per derivarne progetti di trasformazione e quindi “pulizia” ( e non “polizia”) sociale, in senso storico, o meglio e più precisamente, storico-materialistico. Dei “ladri” e più in generale dei “devianti” ci si libera costruendo un mondo che non necessiti o induca latrocinio e/o devianza per affermarsi, o almeno che non si creino occasione “strutturali” di “delinquenza”. Lo stesso Beccaria non andò oltre la teorizzazione della pena redentiva versus quella punitiva. E non fu lo stesso Marx, si parva licet , che ebbe l’intuizione geniale di ascrivere all’esistenza di “difettosi rapporti sociali” la causa di alcune forme di “lavoro improduttivo” legate alla sicurezza pubblica (giudici, avvocati, poliziotti, secondini, rieducatori ecc.)? Ciò una volta che Marx stesso ebbe, inascoltatamente, ad avvertire di non cadere – come invece e poi puntualmente è avvenuto nella tradizione del mainstream e “dintorni” della economics – nella trappola di confondere la natura più o meno “produttiva” di alcune attività lavorative con la loro “utilità”, che è solo una precondizione del loro “valore” e quindi della loro “produttività/improduttività”.
Vittorangelo Orati (vitorati@alice.it)